Seconda parte, Mafie, memorie e fantasia: le origini di un fenomeno

Nel proseguire questo studio si cercherà di far luce sulla vera natura storica delle mafie e, per questa ragione, è necessario interrompere la ricostruzione a ritroso del precedente articolo e riprendere dalle origini plausibili della confraternita dei conduttori di animali da basto e portatori di Palermo.

Le mafie vivono di riti interni – consce del peso che l’essere umano attribuisce ai simboli per identificarsi in una società – e di leggende esterne, per offrire un’idea romantica e mistificatoria della loro natura e delle loro origini, ma anche per confondere ad arte verità e finzione.

La leggenda dei Beati Paoli narra di una setta medievale che, con tanto di processi svolti in un tribunale segreto, giustiziava chiunque commettesse soprusi. I primi riferimenti scritti compaiono a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, nel sedicesimo volume degli Opuscoli palermitani di Francesco Maria Emanuele Gaetani, e da allora sono state compiute numerose indagini e narrazioni romanzate sulla setta. Buona parte degli storici concorda che si tratti di un’invenzione letteraria, pur evidenziando la forte credenza popolare secondo cui, in quel luogo, avveniva effettivamente qualcosa di misterioso.

Un’altra leggenda cara alle mafie – più alla ‘Ndrangheta che alle altre – è ambientata nel 1412 e narra di tre fratelli: Osso, Mastrosso e Carcagnosso, cavalieri di Toledo condannati a trent’anni di reclusione nella fortezza di Santa Caterina dell’isola di Favignana, responsabili dell’assassinio un uomo che aveva oltraggiato la sorella. I tre, disprezzando la condanna inflitta dal sovrano nonostante si trattasse di una questione d’onore, decisero di fondare tre società segrete: Osso in Sicilia, Mastrosso in Calabria e Carcagnosso in Campania. È palese il riferimento alla leggenda spagnola della Garduña, una setta tardomedievale di malfattori e rivoltosi, presumibilmente sulla falsariga della parigina Corte dei Miracoli descritta da Victor Hugo in Notre Dame de Paris o della londinese Società dei Mendicanti drammatizzata da Bertolt Brecht ne L’opera da tre soldi. Come sottolineano gli studi dei linguisti Marta Maddalon e John Trumper, coautori di Male lingue – Vecchi e nuovi codici delle mafie insieme a Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, anche la Garduña vanta una sua trasposizione letteraria:

 

-Non capite?- disse il cameriere. -Bene, ve lo chiarirò; voglio sapere, signori, se lor signori sono dei ladri. Ma non so perché ve lo chiedo se so già che lo siete; ma ditemi: perché non siete andati alla dogana del signor Monipodio?

-I ladri pagano la dogana in questa terra, signor Galàn?- disse Rincòn.

-Se non pagate- rispose il cameriere, -presentatevi almeno presso il signor Monipodio per ottenere la sua paternità, la sua maestranza e la sua protezione. E quindi, vi consiglio di venire con me per dargli il dovuto rispetto, non osate rubare senza la sua approvazione, o vi costerà caro.

 

È un estratto della novella Riconete y Cortadillo della raccolta Novelle esemplari di Miguel de Cervantes, del 1613. I protagonisti del racconto sono due giovani ladri che si imbattono nella società dei malfattori di Siviglia e – tratto distintivo di questa e delle altre organizzazioni citate prima – nei suoi codici, usi e costumi. È un elemento fondamentale della narrazione romantica del crimine: bisogna dare l’idea che i malfattori in questione rispondano alle lacune dell’autorità costituita creando ulteriori regole, più ferree ed efficaci, come se fossero delle vittime e non dei carnefici della stessa, come se la società criminale venisse costituita a fin di bene; su questo le mafie riescono tuttora a crearsi un alibi morale e, aspetto che rammarica più di ogni altra cosa, lo Stato dimostra serie difficoltà ad assumersi le responsabilità delle proprie lacune e ad affrontare con trasparenza il fenomeno, ad “armarsi” culturalmente per prevenirne le minacce.

Nel proseguire questo studio si cercherà di far luce sulla vera natura storica delle mafie e, per questa ragione, è necessario interrompere la ricostruzione a ritroso del precedente articolo e riprendere dalle origini plausibili della confraternita dei conduttori di animali da basto e portatori di Palermo.

 

Una confraternita per tre mafie

Le prime tracce compaiono nel 1347, quando la Corte di Aragona assegnò il giardino della Cuncuma a una confraternita dedita all’assistenza e al conforto di vedove e orfani, nonché ad offrire degna sepoltura a chi non poteva permetterselo, esattamente come la napoletana Confraternita della Morte citata prima. La sua denominazione sembra essere Santa Maria Visita Orfani, almeno fino al 1424, quando venne costituita ufficialmente la confraternita di San Rocco e un tempio a lui dedicato nel terreno adiacente al giardino.

 

Que’ fanciulli, che privi di padre, e di madre andavano mendicando il vitto con pericolo, che, poi cresciuti senza educazione, si dessero in preda a vizj in pregiudizio della società. Sul principio fu questa pia Opera istituita sotto il titolo di S. Maria Visita – Orfani, e per Bolla Pontificia di Paolo II.

 

(Gaspare Palermo, Guida istruttiva per potersi conoscere con facilità tanto dal siciliano che dal forestiere, vol. I, 1816)

 

Per sessantacinque anni la confraternita di San Rocco svolse regolarmente la sua attività, forse prosperò, sicuramente la gestione di quel giardino che le memorie tramandano come lussureggiante garantiva una posizione di privilegio, ma nel 1488 il viceré appena insediato Fernando de Acuna y de Herrera ordinò che quel tempio venisse trasformato in una chiesa, dedicata a Santa Maria di Gesù al Capo, e che il culto di San Rocco venisse istituito altrove. Non è dato sapere se ci furono proposte di trasferimento per la confraternita o se fu un’imposizione senza margine di trattativa, né se la confraternita venne formalmente sciolta e proseguì in clandestinità nei sotterranei della Cuncuma o se non vi sono più tracce nei sessant’anni successivi solo per una dispersione delle fonti nel corso del tempo, sappiamo solo che la decisione del viceré fu irremovibile e tra le ultime che prese: morì cinque anni dopo per avvelenamento e fu sepolto nella cattedrale di Sant’Agata a Catania.

Nel tentativo di assicurare una supervisione istituzionale alla cura degli orfani, nel 1525 il Senato Palermitano istituì il Collegio dei Fanciulli Orfani, e dai documenti non emerge alcun riferimento sulla presenza della confraternita. Almeno, fino al 28 dicembre 1547, quando da Roma fu imposto di aggregare al collegio una certa Arciconfraternita della Madonna Visita Orfani e, a scanso di equivoci su una possibile omonimia con la Madonna Visita Orfani del secolo precedente, basti sapere che l’istituzione nata da quest’aggregazione fu nominata Collegio degli orfani di San Rocco. Forse per insofferenza a quest’imposizione dall’alto, forse per i trascorsi della confraternita col viceré nel Quattrocento o forse per ulteriori motivi ormai sconosciuti, il Senato Palermitano reagì con una mossa curiosa: dispose quale sede del collegio la chiesa di San Giacomo La Mazzara, dov’era già prevista l’istituzione di un ospedale per i soldati spagnoli; ancora oggi, la chiesa palermitana è denominata San Giacomo dei Militari. Disporre come sede un luogo già designato a un’attività diversa e soprattutto che prevedeva una cospicua presenza di militari lascia ipotizzare un braccio di ferro tra il Senato Palermitano e la confraternita, forse per impedire a quest’ultima di gestire la Cuncuma e allo stesso tempo di percepire i fondi per l’assistenza degli orfani; ma, se così fosse, la confraternita doveva godere di importanti influenze a Roma, e ciò spiegherebbe perché il collegio subì pochi anni dopo un trasferimento proprio nella chiesa di Santa Maria di Gesù al Capo, ma per restarvi fino al 1560 e subire ulteriori trasferimenti fino alla sua collocazione definitiva nella chiesa di San Nicola di Bari, a piazza Bologni.

La confraternita scelse probabilmente di restare alla Cuncuma e abbandonare il riconoscimento quale collegio degli orfani. Infatti, dal quarto volume della guida di Gaspare Palermo, si apprende che nel 1609 la chiesa era gestita da una confraternita detta dei Neri che, nel 1612, acquistò un certo tratto di terra avanti la chiesa. Oltre alle analogie pressoché certe con la napoletana congregazione di Santa Restituta dei Neri già esposte nel precedente articolo, l’anno dell’acquisto del terreno coincide temporalmente con l’emanazione del breve pontificio di Papa Paolo V rivolto alle organizzazioni dedicate a Filippo Neri – anch’esse denominate dei Neri, d’altronde estremamente simili negli intenti di assistenza ai bisognosi – non ancora beato, affinché potessero fondare ulteriori oratori, ordini, congregazioni e confraternite senza l’esplicito permesso pontificio; questo spiegherebbe come, di lì a pochi anni, comparve agli atti della chiesa la confraternita dei conduttori di animali da basto e portatori.

Se l’ipotesi di un ennesimo camuffamento della confraternita tra le fila dei devoti di Filippo Neri troverebbe fondatezza solo nella somiglianza nel nome e nelle finalità, è doveroso menzionare che un oratorio a Palermo dedicato a Filippo Neri già esisteva; tuttavia, essendo stato fondato vent’anni prima di quella straordinaria concessione per breve pontificio, per la sua istituzione dovette intervenire Pietro Pozzo, parroco palermitano operante all’oratorio romano. Ed è interessante evidenziare che nello stesso anno in cui Pozzo si adoperò da Roma per la fondazione dell’oratorio a Palermo, nel 1593, avvenne un altro fatto determinante per i rapporti tra la Sicilia e l’Urbe: il parroco di Palazzolo Acreide Matteo Catalano fondò una comunità di assistenza spirituale e materiale per i siciliani a Roma, che l’anno successivo fu riconosciuta e istituita ufficialmente come Arciconfraternita della Beata Vergine Maria d’Itria e dopo Arciconfraternita di Santa Maria Odigitria dei Siciliani. Il culto della Madonna d’Odigitria – o d’Itria – è di origine orientale, importato in Sicilia intorno all’VIII secolo e in Calabria nel IX secolo, quando dei monaci bizantini raggiunsero l’Aspromonte e fondarono il Santuario della Madonna di Polsi che, com’è noto a chi si occupa di mafie, è la Madonna di riferimento nella simbologia della ‘Ndrangheta. Entrambe le Madonne simboleggiano il viaggio, il cammino, quella di Polsi è detta della Montagna – Montalto, la cima più alta dell’Aspromonte verso cui i fedeli intraprendono ogni anno il cammino, partendo dal paese di San Luca – e quella d’Odigitria del buon cammino, e non è casuale che il rito d’iniziazione ‘ndranghetista faccia giurare il neofita su San Michele Arcangelo, che viene sempre rappresentato in procinto di sconfiggere il male – come chi ha intrapreso il giusto percorso – ed è spesso raffigurato a strenua difesa della Madonna col bambino. Oltre a questi riferimenti, la dilungazione sull’origine dell’Arciconfraternita dei Siciliani – e non sui suoi sviluppi nei secoli, che la rendono inequivocabilmente e nettamente distaccata dal fenomeno trattato in questa ricostruzione – è doverosa perché l’8 marzo 1606, a dodici anni dalla sua istituzione e a meno di un anno dall’elezione al soglio pontificio del nuovo papa, fu emanata la bolla Pias Christi Fidelium, che consentiva all’arciconfraternita di liberare un condannato all’anno in occasione della festa della Madonna d’Odigitria, qualsiasi fosse il reato o la gravità della condanna, compresa la pena capitale; è altrettanto interessante evidenziare che il papa in questione fu Camillo Borghese, discendente degli oligarchi di Siena rifugiati a Roma dopo una rivolta antispagnola, la cui famiglia era già legata alla Sicilia dal 1392, quando il re Martino concesse il fondo Biviere di Lentini a Scipione Borghese. Un’altra storia che meriterebbe un approfondimento a parte, quella del rapporto tra i Borghese e i siciliani e, ancora di più, quella dei siciliani nell’Urbe.

La confraternita dei conduttori di animali da basto e portatori godette di sufficiente popolarità perché i palermitani rinominassero la chiesa Santa Maruzza d’i Canceddi, proprio per via delle grosse ceste – i canceddi – trasportate dagli animali, e di sufficiente prosperità da apportare notevoli modifiche strutturali, soprattutto nei sotterranei, ancora oggi ricchi di cunicoli proprio come il sottosuolo del giardino della Cuncuma. E furono probabilmente quei sotterranei i principali testimoni di una realtà che persino l’immaginario popolare ha dimenticato, forse per induzione della stessa confraternita o, forse, per l’evidente difficoltà di fare luce su una storia priva di testimonianze scritte o comunque autenticate. Dei Neri non ci sono ulteriori tracce, se non una leggenda secondo cui gli interessi della Cuncuma furono gestiti per secoli da dei frati domenicani, che garantivano una protezione direttamente da Roma, e da una confraternita i cui membri indossavano un saio, un cordoncino e un cappuccio nero, che garantiva assistenza, conforto e degna sepoltura – è ormai chiaro quale sia stato l’alibi morale nel corso della Storia – a bisognosi, vedove e orfani. Una leggenda suggestiva, ancora di più se si considera che i rivoltosi del 1647 ricevettero dai frati domenicani di Palermo assistenza e degna sepoltura come il pittore Pietro Novelli, ucciso durante i moti; e inquietante, se si tiene conto che il santuario partenopeo della Madonna di Pompei, a cui la camorra rivolge ancora oggi i suoi riti, fu fondato nel 1901 da Bartolo Longo, ex “sacerdote satanista” e poi membro della fraternità laica domenicana, beatificato da Papa Giovanni Paolo II nel 1980. Una leggenda che, per quanto verosimile e rivelatoria su molti aspetti, resta tale.

 

Ipotesi conclusive, tra memoria e parole

Come testimonia l’etnologo Giuseppe Pitrè o lo stesso Gaspare Palermo, definire a Palermo qualcosa o qualcuno d’a Cuncuma assunse fino all’Ottocento una doppia valenza: particolare, con accezione positiva, e pericoloso. Vagamente simile all’ambiguità della parola mafia o, meglio, maffia, che significava spavalderia, senso di superiorità, bellezza, ma anche sopruso. Nel Nuovo vocabolario Siciliano-Italiano di Antonio Traina del 1868 è definita un neologismo, fino ad allora fu sicuramente molto più diffusa la parola camorra, ed è opportuno soffermarsi su due brevi approfondimenti circa l’uso di quest’ultima parola, la cui origine è stata tradizionalmente ricondotta al sopruso o al gioco della morra.

In un documento del 1580, il viceré di Napoli intimava a dei soldati che stanziavano presso Stigliano di non andare alloggiando et camorranno per la città, terre et casali; Alberto Nocentini dell’Accademia della Crusca, giustamente, attribuisce al verbo camorrare il significato di commettere soperchierie. Tuttavia, da un dettaglio evidenziato da Antonella Falco nel suo esaustivo articolo La «Garduña» e le mafie. Ogni origine ha un mito in merito alla lunga indagine condotta da Maddalon e Trumper sul lessico criminale, emerge un’alternativa:

 

I dizionari siciliani e calabresi dell’Ottocento danno al termine “camorra” il significato di “cavezza”, “briglia” in riferimento agli equini oppure quello di “morso” e “freno del carro”, mentre i dizionari dialettali napoletani sia del Settecento che dell’Ottocento sembrano non avere questo lemma.

 

È dunque esistito un uso di questa parola non legato al sopruso o al gioco della morra. E dato che i soldati erano stati intimati di non andare alloggiando et camorranno, sarebbe logico ipotizzare che camorrare potesse anche significare bivaccare o muoversi, magari rumorosamente, come intende persino il dizionario della Treccani: non com. Confusione, chiasso, rumore: “non fate tanta camorra!”.

Sorge spontanea una domanda: se gli animali si tenevano per la camorra, è corretto ipotizzare che i conduttori di animali da basto e portatori fossero chiamati camorristi?

È solo l’ennesima ipotesi.

Tra gli elementi fondamentali delle mafie, questa ricostruzione ha mancato finora di soffermarsi sulla metafora del carciofo e del cardo, più precisamente della cosca, termine entrato nella lingua italiana per indicare un clan mafioso ma derivato dalla parola siciliana che indica la parte più interna e nascosta dell’ortaggio, quella parte che negli animali viene definita in italiano interiora e, in siciliano, ‘ntrànchiti. C’è un motivo: il carcere di Palermo in cui è ambientato I mafiusi di la Vicaria è l’Ucciardone, ai tempi nuovo, in sostituzione del vecchio carcere Vicaria; il nome deriva dal francese chardon, cardo, dal terreno di cardi su cui è stata costruita la struttura detentiva dove si è formata parte della nuova generazione mafiosa che ha visto l’Unità d’Italia e vissuto il Risorgimento, col proposito di cancellare la memoria dell’ormai obsoleta Honorabile Confraternita e di riformare in Sicilia la cosiddetta Onorata Società, come fece qualche anno prima in Campania con la Bella Società Riformata e, se durante la Seconda Guerra Mondiale Primo Levi ci insegnò che Cristo si era ancora fermato a Eboli, è facile intuire perché non ci siano tracce su una plausibile riforma della confraternita anche in Calabria.

Sono solo ipotesi. Le ennesime ipotesi.

 

Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi, ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad assassinarmi. (…) Sto assistendo all’identico meccanismo che portò all’eliminazione del generale Dalla Chiesa… Il copione è quello. Basta avere occhi per vedere.

(Giovanni Falcone, intervista di Saverio Lodato su L’Unità, 10 luglio 1989)

 

 

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