Prima parte di “Mafie, memorie e fantasia: le origini di un fenomeno”

A chi voglia seriamente occuparsi di uno studio sulle classi delinquenti della Sicilia occorrono: conoscenza vasta del diritto privato e dell'economia sociale; famigliarità con la storia e con le tradizioni locali e soprattutto coraggio e lealtà per assorgere alle vere cause della criminalità, sprezzando pericoli di rappresaglie ed impopolarità. G. Alongi

A chi voglia seriamente occuparsi di uno studio sulle classi delinquenti della Sicilia occorrono: conoscenza vasta del diritto privato e dell’economia sociale; famigliarità con la storia e con le tradizioni locali e soprattutto coraggio e lealtà per assorgere alle vere cause della criminalità, sprezzando pericoli di rappresaglie ed impopolarità. S’egli vuol ricorrere alle indagini dirette infatti troverà o reticenze interessate, o notizie contraddittorie, idee preconcette, scetticismo ed ironia. Se invece studia i molti lavori scritti sull’argomento non troverà minor confusione. Per alcuni la maffia non esiste, per altri è una vasta e potente associazione di malfattori con gerarchia preordinata, fissa, evolventesi sociologicamente; una specie di stato abnorme dentro lo stato legale. I primi attenuano il male, e sol perché dovunque sonvi ladri e uomini violenti, ne concludono che la Sicilia non si trova in condizioni peggiori di ogni altra regione; i secondi esagerano prendendo un fenomeno criminoso come tipo per fabbricarvi su un romanzo sociale sulla maffia.

(Giuseppe Alongi, La maffia nei suoi fattori e nelle sue manifestazioni, 1886)

Cartina della Sicilia del 1900 che mostra la densità mafiosa dei comuni siciliani, pubblicata dal delegato di P.S. Antonino Cutrera nel suo libro “La mafia e i mafiosi”.

 

Sono le parole di un ex insegnante di scuola elementare di Prizzi, divenuto poi questore di pubblica sicurezza a Palermo e tra i primissimi studiosi del fenomeno mafioso. Giuseppe Alongi non si limitò a trattare della realtà siciliana, quattro anni più tardi pubblicò anche La camorra, studio di sociologia criminale, un tentativo di ricostruzione quantomeno avventato della criminalità organizzata campana, soprattutto per la collocazione delle sue origini durante il regno di Ferdinando II, tra il 1830 e il 1859:

 

La frode, il furto, la truffa furono durante il governo di Ferdinando II incoraggiati se non legalizzati quando si trattava di farvi partecipare le autorità che invece erano state incaricate di combatterle.

 

Oggi è rinomato che quello della camorra sia un fenomeno preesistente all’Ottocento, se si considera che intorno agli anni Venti di quel secolo fu addirittura costituita la Bella Società Riformata, primo tentativo – di cui siamo a conoscenza – di riunire tutti i gruppi camorristici sotto un’unica società criminale strutturata proprio come quella della mafia siciliana; uno scenario che, per quanto lontano nel tempo, negli intenti non è così diverso da quello prospettato negli anni Settanta del Novecento con la fondazione della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Nel corso della Storia, il progetto di unificare la camorra è stato più volte ripreso ma mai realizzato, un po’ come il progetto del Ponte sullo Stretto.

Oltre all’avventatezza, un’altra pecca degli studi di Alongi è l’influenza delle teorie lombrosiane, a cui dedicava uno studio appassionato. Tuttavia, i suoi studi sul fenomeno siciliano offrono una disamina impeccabile, sorprendente per l’epoca, e dalle sue ricostruzioni emerge un tentativo della camorra di estendersi in Calabria e in Puglia, fino a Bari, e questo spunto fa riflettere ancora oggi sui numerosi elementi di relazione riscontrati nella seconda metà del Novecento tra criminalità campana e pugliese, quando Cutolo – ancora una volta pronto a emulare mire criminali passate, evidentemente – trovò terreno fertile per estendere la sua Nuova Camorra Organizzata con la fondazione della Nuova Camorra Pugliese e della Società Foggiana, negli anni Ottanta. Furono questi sviluppi a provocare in Puglia una volontà di affrancamento criminale dai campani e la nascita della Sacra Corona Unita ad opera di Giuseppe Rogoli, un salentino affiliato alla ‘Ndrangheta nel clan Bellocco di Rosarno. Un dettaglio importante, quello del clan Bellocco, se si considera che si tratta della stessa ‘ndrina che riuscì a mettere pace nella sanguinaria faida ‘ndranghetista che tra il 1985 e il 1991 provocò un migliaio di morti, grazie anche all’intercessione di due garanti che ben poco sembrerebbero avere a che fare con gli equilibri criminali calabresi: Totò Riina e Leoluca Bagarella, del clan dei Corleonesi di Cosa Nostra. Non c’è da stupirsi di queste relazioni, secondo svariate dichiarazioni dei collaboratori di giustizia lo stesso Raffaele Cutolo fu prossimo all’iniziazione a Cosa Nostra e, tra il 1979 e il 1980, sia i siciliani che i calabresi furono “osservatori” del cosiddetto “Vertice dei Novanta” di Galatina, la riunione che di fatto definì la Nuova Camorra Pugliese.

Riepilogando: il campano Raffaele Cutolo si espanse fino in Puglia, le criminalità organizzate pugliesi godettero del benestare di Cosa Nostra e della ‘Ndrangheta, lo stesso salentino Giuseppe Rogoli era affiliato a un clan calabrese e una faida ‘ndranghetista fu placata grazie a delle garanzie di Cosa Nostra. È chiaro che questi fatti siano la conseguenza di uno sviluppo ben più complesso di quello tradizionalmente accettato, ossia che le mafie sarebbero organizzazioni distinte e separate, accomunate solo dal modus operandi e dalle strutture iniziatiche, e per questo si pone una ricostruzione quanto più accurata possibile sulle origini del fenomeno mafioso, dai fatti alle relative ipotesi di cui non è possibile fare a meno quando si tratta di realtà che amano vivere all’ombra della società civile.

 

Le prime tracce documentate dell’Onorata Società
La prima apparizione pubblica del termine mafia risale allo spettacolo del 1863 dei palermitani Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca I mafiusi di la Vicaria, ambientato nel carcere borbonico dell’Ucciardone che, ai tempi, la popolazione palermitana insisteva a denominare come il vecchio carcere, Vicaria. I protagonisti sono membri di un gruppo gerarchico affiliato a una vera e propria società delle carceri, dedita al controllo e all’imposizione delle regole comportamentali agli altri detenuti, che sono tenuti a pagar loro la lampa e il pizzo, ossia il mantenimento della lanterna accesa e lo spazio per la branda. Nel corso della trama viene introdotto in carcere un privilegiato, beffardamente denominato dagli autori Incognito e che infine si rivelerà un’autorevole figura politica, a cui il capo del gruppo – fino a quel momento insofferente ad ogni forma di autorità al di fuori di se stesso – rivolge una riverenza spropositata e inusuale, tanto da destare la meraviglia dei gregari. Questo dettaglio lascia intendere non solo un rapporto di segretezza a strati all’interno della stessa società criminale, ma anche un’estensione della stessa ben oltre le carceri.

Dunque, prima dell’Unità d’Italia esisteva una società segreta che univa politica e malaffare, che sicuramente avrà giovato di quel clima risorgimentale che provocò una rilevante fioritura di istituzioni massoniche e carbonare, ma le sue origini non sono da associare in alcun modo a questi fenomeni, perché un altro elemento storico dimostra l’esistenza della mafia ben cento anni prima: nel 1770, il viaggiatore scozzese Patrick Brydone visitò la Sicilia e ne trasse un resoconto epistolare pubblicato tre anni più tardi, Viaggio in Sicilia e Malta, in cui scrisse di aver sorprendentemente beneficiato della scorta di temutissime figure locali appartenenti a una certa Honorabile Confraternita, a cui era stato affidato dai suoi amici d’alto lignaggio, affinché venisse trattato col massimo rispetto ovunque avesse viaggiato per l’isola. Brydone era massone, come testimonia Anna Maria Corradini col suo Goethe in Sicilia. L’isola iniziatica (Armando Siciliano Editore, 2008) contribuì in misura significativa ai rapporti tra logge palermitane e inglesi, ed è palese che non riconobbe gli appartenenti a questa confraternita come suoi “fratelli”, anzi: nel suo scritto sono apostrofati banditi, si narra di atti fratricidi consumati in nome dell’onore e viene descritto con una certa inquietudine il rapporto privilegiato con la Corona di Spagna che consente loro persino di sottomettere le autorità locali; insomma, non li considerava neanche cugini alla lontana. Questo smentirebbe la tesi tanto dibattuta sull’origine massonica della mafia, già trattata nell’articolo dove sono anche descritti nel dettaglio gli aneddoti di Brydone e si menziona la natura dei rapporti tra mafia e massoneria deviata, che è opportuno conoscere per non incorrere nell’errore più grande su cui la mafia prospera: la confusione sulla sua identità.

D’altronde la massoneria nella sua accezione moderna – dopo il passaggio da “operativa” a “speculativa”, ossia quando le logge cessarono di essere composte solo da veri muratori e sostituirono il fine della costruzione di cattedrali con lo studio dei simboli e la speculazione filosofica – nacque in Inghilterra nel 1717, e la ricostruzione sulle origini della mafia dispone di ben altri elementi storici che la collocano in un’epoca ancora precedente.

 

Masaniello e Giuseppe D’Alessi: quattro rivolte, due vittime, un solo disegno
È nota la vicenda di Masaniello, Tommaso Aniello D’Amalfi, il capopopolo partenopeo che nel mese di luglio del 1647 guidò la rivolta popolare e in pochi giorni fu vittoriosamente proclamato Capitano generale del fedelissimo popolo napoletano a scapito del viceregno spagnolo. Com’è noto, in altrettanti pochi giorni dalla presa di potere Masaniello si inimicò il popolo – secondo la tradizione, per una sua improvvisa follia che lo spinse ad atti crudeli e spregiudicati – e i suoi fedelissimi non esitarono a sparargli e decapitarlo. Sarebbe necessario un approfondimento a parte sull’intera vicenda, soprattutto per far luce sulle numerose contraddizioni che caratterizzarono gli sviluppi immediatamente successivi e remoti, come i cinque mesi di vita della Real Repubblica Napoletana e la venerazione popolare per Masaniello perdurata nel tempo, ma al fine di questa ricostruzione è sufficiente considerare solo tre dettagli.

Il primo è che da allora la Storia riconosce l’esistenza di una consorteria impegnata nel controllo dei ceti popolari napoletani, del mercato, del contrabbando, della prostituzione e delle case da gioco, a prescindere dall’eventuale appartenenza di Masaniello che è ancora oggi oggetto di dibattito. Si parla da allora di compagnoni, guapperia, e in un atto normativo del 1735 sull’apertura di otto case da gioco ne appare una denominata Camorra avanti Palazzo. È la prima apparizione scritta di quel sostantivo, per cui buona parte degli storici concordano che la parola derivi dal gioco della morra, tanto popolare quanto pericoloso se condotto senza la supervisione di una figura riconosciuta dal popolo come autorevole, che sapesse contenere le risse. La seconda apparizione su un atto normativo avvenne solo nel 1862 in un processo del Tribunale Militare di Torino contro Giovanni Coppola, un soldato originario di Rossano relegato al forte di Fenestrelle, accusato di estorcere denaro ai commilitoni che giocavano d’azzardo per diritto di camorra. Una vicenda analoga avvenne nel forte di Exilles lo stesso anno, sempre nel torinese, e il processo vide alla sbarra un reggino, un avellinese e un napoletano, a riprova che il termine non era riservato ai partenopei, come sottolineano anche i dizionari postunitari.

Il secondo dettaglio riguarda le tempistiche strettissime e ben organizzate della rivolta napoletana che, se già fanno sospettare un piano tutt’altro che spontaneo e popolare, è importante ricordare che fu solo successiva a una rivolta scoppiata in Sicilia. Intrapresa a Messina nel dicembre del 1646 per via di un’imposizione che diminuiva il quantitativo di pane da vendere e consumare, proseguì a Catania, Agrigento, Monreale e Palermo, finché il viceré di Sicilia Pedro Fajardo de Zuniga y Requesens non accontentò la richiesta in poche settimane. I siciliani tornarono dunque alla carica nel mese di maggio, stavolta per la pressione fiscale delle gabelle, lo stesso motivo che alimentò la rivolta napoletana a luglio e, successivamente, una nuova rivolta siciliana nel mese di agosto. Non è un’intuizione che i rivoltosi siciliani fossero a stretto contatto coi rivoltosi napoletani: il battiloro Giuseppe D’Alessi, soprannominato il Masaniello siciliano, capeggiò insieme al mugnaio Nino La Pelosa i moti di maggio, fu arrestato ed evase dal carcere proprio per recarsi a Napoli e, dopo la morte di Masaniello, tornò a Palermo per organizzare la rivolta di agosto. In modo straordinariamente analogo alla vicenda napoletana, anche D’Alessi ebbe un brevissimo momento di gloria e un rapidissimo declino: prese il potere, si inimicò il popolo e fu decapitato. Tradizionalmente si tramanda che il motivo della repentina inimicizia del popolo derivò da una voce secondo cui D’Alessi volesse consegnare la Sicilia ai francesi; un motivo storicamente debole per giustificare l’inimicizia dei ceti popolari, forse più debole dell’improvvisa pazzia di Masaniello, ma su questo dettaglio è opportuno soffermarsi dopo. Per concludere le considerazioni in merito all’influenza siciliana sulle sorti della rivolta napoletana, premesso che i cognomi fra i ceti popolari divennero definitivi e obbligatori solo con il Concilio di Trento del 1563, dunque appena ottantatré anni prima, è singolare che la testa di Masaniello fu recisa e mostrata per le strade napoletane proprio dai fratelli – definiti talvolta fornai e, talvolta, veri e propri sicari – Carlo e Salvatore Catania.

Il terzo dettaglio, come già anticipato, riguarda l’apparente pretestuosità degli eventi. Su quattro rivolte – dicembre, maggio, luglio e agosto, tre in Sicilia e una a Napoli – una venne assecondata, una fu repressa e due furono vinte con la stessa tragica conseguenza per i rispettivi capipopolo, che in pochi giorni ebbero la meglio sulle autorità, godettero della venerazione del popolo e improvvisamente ne subirono l’odio che li condusse alla morte. La riduzione o l’abolizione delle gabelle, se per l’accondiscendenza che il viceré di Sicilia aveva dimostrato per l’imposizione sul pane appare una forzatura, per i continui tentativi di riduzione da parte del viceré di Napoli appare un vero e proprio pretesto. Eppure, sia Masaniello che Giuseppe D’Alessi usavano il grido di battaglia Viva il re, a morte il malgoverno! come se la responsabilità fosse unicamente dei viceré; ed è interessante soffermarsi sul grido di battaglia per valutare se anche l’intenzione di consegnare la Sicilia ai francesi attribuita a D’Alessi fosse solo un pretesto per ucciderlo. È anche vero che il viceré di Napoli, nominato a febbraio del 1646 per le dimissioni del suo predecessore Juan Alfonso Enriquez de Cabrera, fu costantemente osteggiato nei suoi intenti di ridurre le gabelle dalla classe nobiliare napoletana, l’unica realtà che uscì pressoché indenne dalla rivolta, allo stesso modo della classe nobiliare siciliana; a Palermo, addirittura, quando D’Alessi prese il Palazzo dei Normanni, vietò al popolo di infierire sulle famiglie nobiliari e persino sui loro averi. Quest’ambiguità di D’Alessi è pari al sostegno che Masaniello ricevette dall’ecclesiastico degli ordini minori Giulio Genoino, distintosi in precedenza per numerosi atti di sommossa e che favorì della protezione del duca d’Osuna Pedro Tellez-Giron y Guzman, grazie a cui ebbe accesso a diverse cariche politiche pur senza rispettare alcuna procedura. Genoino fu arrestato nel 1647 e spedito a Cagliari con l’esplicita richiesta del viceré di Napoli di ucciderlo senza ricorrere a una condanna a morte ufficiale; il viceré di Sardegna Luis Montalto si rifiutò di prestarsi a questo piano subdolo e, anzi, assecondò la richiesta di Genoino di essere ricevuto dal re in persona al fine di rivelargli i retroscena delle rivolte. Fu imbarcato, ma non arrivò a destinazione: morì misteriosamente durante il viaggio.

Questi tre dettagli sono sufficienti per intuire l’influenza di un’organizzazione che colpì i viceregni pur garantendo al re Filippo IV di Spagna di non perdere il Mezzogiorno d’Italia, dove la classe nobiliare fece il bello e il cattivo tempo e dove, soprattutto, i capipopolo furono prima appoggiati e poi uccisi. La protagonista indiscussa fu senza dubbio la comunicazione e, approfondendo sulle corporazioni di categoria dalla Campania alla Sicilia, emerge che la più conosciuta e ben organizzata nel Seicento fosse la confraternita dei conduttori di animali da basto e portatori di Palermo, derivata da altre confraternite ben radicate nel territorio da tempo, tra cui una misteriosa confraternita detta dei Neri. Una coincidenza particolare, dato che nel 1567 fu fondata nella cappella di San Giovanni in Fonte di Napoli, nella chiesa di Santa Restituta, una congregazione denominata Santa Restituta dei Neri, originariamente conosciuta come Confraternita della Morte per lo scopo di seppellire i poveri che muoiono senza elezione di sepoltura, come testimonia la banca dati dell’Archivio di Stato di Napoli.

Il prossimo articolo si concentrerà su questi e altri elementi inerenti alla confraternita dei conduttori di animali da basto e portatori di Palermo, su cui è certo che gestisse la comunicazione e i trasporti, ma soprattutto che avesse sede nella chiesa di Santa Maria di Gesù al Capo e custodisse il terreno adiacente: il giardino della Cuncuma, dove una leggenda vuole che si svolgessero le riunioni dei Beati Paoli, la pittoresca setta di vendicatori che la mafia odierna rivendica come sua antenata.

 

Vi era pure un bello, e largo giardino, che chiamavasi della Cuncuma, le di cui frutta erano squisite, e da ciò nacque il proverbio siciliano, che al volersi esprimere la singolarità di qualche cosa, dicesi essere della Cuncuma.

 

(Gaspare Palermo, Guida istruttiva per potersi conoscere con facilità tanto dal siciliano che dal forestiere, vol. IV, 1816)

 

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