Memoria a perdere: il carcere è un’istituzione civile?

Dopo un’approvazione con riserva il 2 aprile 2022, la riforma dell’ergastolo ostativo è stata rinviata a novembre. L’anno precedente i giudici costituzionali hanno lasciato poco spazio al dibattito, ritenendo questa misura incompatibile con la Costituzione, costringendo così il Parlamento a riformare la condizione che “osta” al detenuto l’accesso a misure alternative e benefici penitenziari – permessi premio, liberazione condizionale, semilibertà – poiché la sua pericolosità e la sua condotta precludono ogni aspettativa di ravvedimento. L’inevitabile polemica tra media, politica ed enti interessati è dunque accesa, ma con risvolti curiosi: l’associazione Antigone parla di “occasione persa” a fronte della riforma, che prevederebbe trent’anni di condanna minima prima di poter concedere la libertà condizionale a chi non vuole collaborare con le forze dello Stato. Questo dettaglio è importante, sta alla base dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario: l’ergastolo ostativo è stato ideato nel 1992, a seguito delle stragi di Capaci e via d’Amelio, per inasprire la condizione detentiva di mafiosi e terroristi che si rifiutano di collaborare con le forze dello Stato; negli anni, l’eccezionalità dei reati ostativi è stata estesa alla tratta di esseri umani, violenza sessuale di gruppo, determinati reati contro la pubblica amministrazione e di narcotraffico; e proprio in questa sua estensione risiede una delle ragioni principali a cui si appellano i detrattori. Di contro, diversi enti impegnati nella lotta alla mafia e funzionari delle forze dell’ordine rifiutano l’idea che i parenti delle vittime di mafia e terrorismo possano incrociare per strada chi li ha resi tali, che rinomati stragisti possano riprendere le redini del potere criminale e, non da meno, che le organizzazioni peggiori del passato e del presente possano celebrare una vittoria morale sullo Stato. Ad esempio, il pluriomicida ed esponente di spicco del clan dei Corleonesi Leoluca Bagarella, oggi ottantenne e detenuto dal 1995, se non fosse per l’ergastolo ostativo del 4bis e per l’isolamento del 41bis, avendo scontato oltre i ventisei anni necessari alla libertà condizionale, potrebbe uscire dal carcere pur non avendo collaborato. Come spesso accade, mentre le istituzioni dibattono da un estremo all’altro tra l’importanza della sicurezza pubblica e la necessità di prevedere un reinserimento sociale per tutti, la cronaca rivela casi più concreti: Antonio Gallea, mandante dell’omicidio del giudice Rosario Livatino e in semilibertà dal 2015 per aver collaborato con la giustizia, è stato arrestato nuovamente per mafia nel 2021; il ‘ndranghetista Marcello Viola, condannato a quindici anni dal 1992 per quattro omicidi – ridotti a dodici in appello – e all’ergastolo dal 1999 per l’aggiunta dei reati di sequestro di persona, detenzione abusiva di armi da fuoco e omicidio con l’aggravante mafiosa nella cosiddetta “seconda faida di Taurianova”, nonostante non abbia mai collaborato con la giustizia, nel 2016 ha presentato ricorso alla Corte di Strasburgo per due permessi premio rifiutatigli e, nel 2019, la Corte ha giudicato “eccessivo” il vincolo tra collaborazione e permessi perché possa rientrare nei margini di tolleranza tra misura coercitiva e rispetto dei diritti umani. A questo proposito, sorge spontaneo domandarsi se ha senso concentrare la questione sui diritti umani in una delle disposizioni antimafia come l’ergastolo ostativo e non, con maggiore coerenza e onestà intellettuale, sul carcere in sé, che riguarda senza dubbio anche la persona più onesta della società.

 

Rieducazione?
Dai fatti di Santa Capua Vetere alla serie Sky di Luca Zingaretti Il re, è facile rendersi conto di quanto la realtà del carcere sia fonte attuale di dibattito, riflessione e, spesso, discussione. Sui social network ne è ricorrente l’invocazione: una fascia dei ricettori della cronaca – odiatori seriali, leoni da tastiera, nostalgici di un ventennio mai vissuto – la eleva a destinazione ideale per chiunque non sia conforme ai propri canoni di rettitudine o addirittura di gradimento; un’altra categoria di utenti – vicini agli ambienti della trap od ossessionati a rivangare l’hard boiled senza averne consapevolezza – la decanta con toni quasi romantici, come un vero e proprio modello d’ispirazione. Di quest’ultima categoria è importante sottolineare che la persona con maggiore cognizione, di solito, ha scontato non più di una breve condanna per un reato minore e spesso agli arresti domiciliari; ma per la media di chi è interessato ad apparire come un soggetto problematico perché intimorito dalla frenesia della società e frustrato al punto da non saper individuare il personale disagio emotivo, chiunque abbia vissuto una minima parte di quella circostanza è più che sufficiente perché segga sullo scranno dell’idolatria. È l’inevitabile concezione del mito, dell’elevazione a simbolo, ossia quando qualcosa assume il ruolo di significante nell’immaginario collettivo senza un motivo direttamente riconducibile al significato; e, soprattutto quando il simbolo è associato a una sottrazione di valore comune, dunque inteso di accezione negativa, la sua elevazione avviene quando quel qualcosa non ha più una ragione logica per continuare ad esistere.

 

Noè costruì un altare al Signore; prese animali puri di ogni specie e uccelli puri di ogni specie e offrì olocausti sull’altare.
(Genesi, 8, 20)

Questo passo biblico è narrato immediatamente dopo il Diluvio Universale: Noè ha quindi salvato gli animali da una punizione del Signore, su indicazione dello stesso, per poi immolarglieli.

Allo stesso modo noi, per tutelare la libertà, riteniamo che toglierla al nostro simile sia la strategia migliore e, per sostituire l’aggettivo punitivo con rieducativo in modo da convalidare l’istituzione carceraria al rispetto dei diritti umani, ci siamo impegnati nella formulazione di leggi che garantiscano dei diritti ai detenuti; ovviamente, sulla carta. Oltre a un sovraffollamento del 114% – secondo l’associazione Antigone, sono oltre sessantacinquemila detenuti per meno di quarantaquattromila posti letto – e costanti episodi di tragica ingiustizia sociale o disperazione, sarebbe sufficiente riflettere sulle condizioni basilari valide per ogni detenuto perché non sorgano più dibattiti in merito all’inadeguatezza della prigione. La privazione della libertà, ad esempio, non consiste solo nel risiedere in un determinato spazio senza poter uscire, ma l’impossibilità di riservatezza in qualsiasi circostanza, compreso l’espletamento di bisogni fisiologici o igienici, il colloquio con un affetto personale esterno o con un compagno di cella, il sonno, l’impiego dell’abitudinarietà che abbonda tristemente. Sì, perché si dispone di pochissime risorse, tra l’altro a pagamento e con prezzi maggiorati, e buona parte dei giorni sono conformati allo stesso modo, con le stesse regole che nella loro genericità provocano un altro processo alienante: la deindividuazione, ossia quel fenomeno psicologico e sociale dovuto a una riduzione dell’identificazione di se stessi e dell’autoconsapevolezza.

È tanto provocatorio quanto intuibile che, a queste condizioni, se tutti i carcerati fossero dei detenuti modello avremmo una popolazione carceraria in preda al delirio; e un’istituzione dello Stato che rende impossibile la sua osservanza contribuisce alla carenza di credibilità di ogni istituzione pubblica, favorendo così la diffidenza del cittadino e l’insorgenza del crimine. Queste condizioni spingono, oltre a rivelare la fragilità delle regole, alla creazione di gruppi incattiviti nel senso più ampio del termine. È importante soffermarsi su questo punto per due ragioni: è difficile comprendere come possa giovare allo Stato che dei responsabili di delitti siano incentivati a stringere relazioni fra loro; è facile comprendere come le mafie abbiano trasformato le carceri in roccaforti personali dedite al reclutamento e all’addestramento del loro braccio armato. Ecco perché, secondo il tasso di recidiva nazionale, il 70% degli ex detenuti torna a commettere reati, a parte le numerose preclusioni e ostacoli, normative e sociali, che si pongono tra un ex detenuto e il suo reinserimento nella società.

A maggior ragione con l’esistenza di fenomeni criminali articolati come le mafie, che in un vortice di favoritismi e ricatti mantengono una rete di connivenza con circuiti di potere politico e affaristico, l’istituzione del carcere può rivelare dei tratti nocivi: viene da sé che un mafioso detenuto assuma una posizione di comando sui criminali comuni e che il più alto in grado nella gerarchia mafiosa possa assumere addirittura il controllo della vita sociale dentro il carcere. D’altronde, se le mafie non tendessero a disporre delle case circondariali, come farebbero a comunicare con l’esterno? È il motivo per cui, in seguito alla strage di Capaci, l’allora Ministro della Giustizia Claudio Martelli introdusse l’articolo 41bis alla Legge Gozzini – vigente dal 1986 sulle disposizioni detentive –, volto proprio ad ostacolare le comunicazioni di alcuni condannati per mafia. Tuttavia, come dimostra la cronaca del 2021 in merito alla legale di un boss che sedeva ai vertici di Cosa Nostra e si prestava come messaggera tra l’esterno e i detenuti al 41bis, esistono delle falle di sistema a cui la Commissione Antimafia sta lavorando nel tortuoso percorso di un ordinamento che insiste su un’applicazione più chiara del principio di rieducazione anche per chi appartiene con fierezza a una realtà mafiosa, ossia chi non ha alcun interesse a essere rieducato, a prescindere dalla sua volontà. Come se, al di fuori delle speciali misure previste per mafia e terrorismo, il principio di rieducazione sia efficace e soddisfacente.

A far le spese di un’istituzione che debilita fattori determinanti alla vita sociale e si rivela comunque incapace di contrastare il fenomeno della criminalità organizzata – ma, anzi, ne sollecita la formazione criminale – non sono solo i detenuti e la società oltre le sbarre: la polizia penitenziaria è forse la realtà che ne risente più sensibilmente. Senza soffermarsi al rapporto controverso dello Stato quando si ritrova a fronteggiare episodi di violenza e sopruso, è di primaria importanza considerare l’umanità calpestata da un mestiere che prevede una condanna decennale su un essere umano costretto al mero ruolo di sorvegliante. Infatti, se i tutori dell’ordine di qualsiasi altra istituzione godono comunque di un lavoro nella società, i funzionari di polizia penitenziaria ne sono alienati tanto quanto i detenuti. E, se non istituiscono delle regole personali talvolta imposte ai detenuti, devono sottostare a quelle formulate da questi ultimi. È la denuncia implicita di Victor Hugo ne I miserabili: i due protagonisti, non a caso, all’inizio del romanzo sono un secondino e un galeotto in un bagno penale; e il secondino è nato in carcere. Paradossalmente, mentre il galeotto gode nelle righe di un nome e un cognome, Jean Valjean, il secondino dispone solo di un cognome, Javert, e in quest’ultimo risiede la più grande contraddizione istituita nel servire lo Stato ed esserne reietto.

 

Attesa di giudizio… storica?
Nonostante l’ambientazione de I miserabili appaia distante dalla nostra epoca, in un luogo come il carcere anche il tempo è in stato d’arresto, e questo principio di memoria a perdere – termine per definire il carcere, pescato dall’album di Teatro Canzone Pro fondo Pro bono – è forse una delle condanne più atroci all’intera umanità. Non siamo riusciti a evolvere neanche nella pratica, dato che un contesto assurdo provoca conseguenze grottesche: per quanto possa sembrare strano, nell’antichità la reclusione era prevista prevalentemente per l’attesa di giudizio, che poteva prevedere l’esilio, le pene corporali o capitali. Infatti, il 33% dei detenuti attuali in Italia è effettivamente in attesa di giudizio, di cui il 16% in attesa di primo giudizio, pertanto senza alcuna reale condanna: si tratta di diecimilaquattrocento persone non condannate, ma rinchiuse.
Se Platone testimonia nell’Antica Grecia l’esistenza di tre sedi di reclusione destinate alle persone in attesa di giudizio, ai vagabondi e ai criminali – quest’ultima posta fuori dall’abitato, in una forma d’esilio vigilato – è deducibile che la nascita della detenzione risieda nell’esigenza di escludere dalla vita sociale determinate persone. Eppure, secondo Michel Foucault la ragione sarebbe ben diversa:

 

L’esercizio della disciplina presuppone un dispositivo che costringe facendo giocare il controllo; un apparato in cui le tecniche che permettono di vedere inducono effetti di potere, e dove, in cambio, i mezzi di coercizione rendono chiaramente visibili coloro sui quali si applicano.
(Sorvegliare e punire, cap. La sorveglianza gerarchica)

 

Il filosofo francese contemporaneo analizza il rapporto della disciplina e della costrizione con il potere; dunque, la detenzione sarebbe principalmente uno strumento di controllo sull’intera società e non incentrato sulla tutela della stessa. Con questa teoria sarebbe effettivamente più chiara la reclusione dei vagabondi testimoniata dal suo collega greco e comprovata nel corso della Storia: non è un caso che il prototipo di carcere è storicamente accettato nei bridewells, strutture di lavoro e dormitorio coatto fondate dai Tudor nell’Inghilterra del Cinquecento, destinate a vagabondi e disoccupati. E dato che, citando la Treccani sulla voce prigione: la differenza tra le due istituzioni si limitò a un fatto meramente lessicale, ben presto i luoghi di concentramento per chi attendeva una condanna o un’assoluzione si unirono a queste strutture, ereditandone il modello d’ispirazione “rieducativa”. Rieducazione che, tornando a Foucault, punterebbe esclusivamente a un principio di produttività. Sembra dargli ragione la sentenza 264/74 della Corte costituzionale, secondo cui chi è condannato all’ergastolo può avere accesso alla rieducazione perché ha la possibilità di lavorare; e il lavoro, ribadisce la sentenza, è gloria umana. Dunque, nessuna contraddizione secondo l’ordinamento: una persona alienata alla vita sociale può reinserirsi, pur restando alienato.

Per non scadere in un vuoto garantismo che dimostra empatia per feroci criminali ed empietà per chi ha subito un delitto, è opportuno riconoscere un’estrema difficoltà nell’immaginare uno stragista a piede libero, a maggior ragione se quest’ultimo non si è mai dichiarato pentito e tanto meno ha mai collaborato con le istituzioni. In questo caso non sarebbe una soluzione dignitosa nei confronti dello Stato e di qualsiasi essere umano che confida in un principio di giustizia, ma è proprio a fronte delle pecche, dell’anacronismo e della cattiva gestione dell’odierno regime carcerario che si fatica a trovare una soluzione. Perché, se da un lato un terzo dei detenuti è in attesa di giudizio e al contempo si discute sulla scarcerazione di individui pericolosi, una figura condannata in via definitiva per favoreggiamento alla mafia può tornare in libertà dopo aver scontato poco più di metà della pena inflittagli e può proseguire la sua attività politica; è quanto successo negli ultimi anni, senza la necessità di fare nomi, e oggi il soggetto in questione è ancora una volta pronto a dispensare baci e offrire cannoli con una carica di vittimismo pronta a scagliarsi contro una sofferenza come quella del carcere. Ecco come la cattiva gestione offre uno spunto in più a chi persegue secondi fini.

 

La negazione dell’emotività come principio dei mali
La tenera e calda amicizia ch’era tra noi, il bisogno che avevamo di dirci tante cose, l’impedimento che a questa effusione era posto dalla presenza d’un attuario, il troppo breve tempo che ci fu dato di stare insieme, i sinistri presentimenti che mi angosciavano, lo sforzo che facevamo egli ed io di parer tranquilli, tutto ciò parea dovermi mettere una delle più terribili tempeste nel cuore. Separato da quel caro amico, mi sentii in calma; intenerito, ma in calma. Tale è l’efficacia del premunirsi contro le forti emozioni.
(Silvio Pellico, Le mie prigioni, cap. XVII)

 

Pellico solleva un dettaglio cruciale: l’emotività dei reclusi. Oltre a provare nostalgia per una corsa e meraviglia quando un piccione si ferma nel cortile dell’ora d’aria, a fantasticare sul giorno della scarcerazione in cui verranno prelevati in auto da una figlia che in quel momento ha solo dieci anni, ai detenuti sembra non sia concesso nient’altro che di emotivo e intimo oltre all’immaginazione; ed ecco come, dalla privazione della libertà e dalla deindividuazione, si passa alla privazione della sessualità. Ed è quasi impossibile instaurare un rapporto sereno anche con il proprio corpo, vivendo nell’eventualità di una perquisizione della cella in qualsiasi momento.

Per garantire un’espressione emotiva, sono sempre più in voga laboratori artistici, ma che condizioni offre lo Stato affinché questi avvengano? Nessuna garanzia, solo la possibilità di formulare protocolli d’intesa tra enti appositi e le stesse case circondariali. Eppure, le carceri sono tra i luoghi maggiormente predisposti alla manifestazione emotiva in generale e all’espressione artistica in particolare: in un regime così ostile e restrittivo, si innesca automaticamente un’implicita ritualità nelle azioni, nelle parole, nella condotta di ogni detenuto, perché solo con una funzione rituale è possibile non cedere al delirio e attivare una comunicazione protettiva e salvifica. La ritualità è una canalizzazione emotiva, un processo creativo fatto della stessa sostanza di cui son fatte le arti, praticate da chi una volta era sepolto in terra sconsacrata insieme a vagabondi, prostitute e criminali. E perché no, forse reclusi nei bridewells, eccezion fatta per quella cerchia di artisti ammirati dalle masse e supportati dal potere dell’epoca: perché l’arte è politica, e la politica lo sa. Non è da sottovalutare questo aspetto, se oltre alla trap si considera il tanto controverso genere neomelodico; al contrario dell’odierno fenomeno di tendenza musicale, la neomelodica ha sempre rappresentato una forma più autentica di narrazione dei margini della società, carcere compreso. Che gli interessati siano coinvolti o meno in questioni criminali, è uno dei pochi generi musicali a godere di enorme influenza nei quartieri dove lo Stato è assente e, se nelle canzoni si parla di esperienze reali come la gestione della manovalanza sul territorio o la latitanza, è la dimostrazione di come la mafia conosca molto bene l’importanza politica dell’impronta culturale; sicuramente, più di quello Stato assente sorretto dalla retorica dei forcaioli fedeli alle radici disumane del principio punitivo, dei sepolcri imbiancati che intendono per rieducazione solo la gloria umana del lavoro o, ancora, dei garantisti a oltranza che si concentrano a contestare misure speciali in un contesto che difficilmente può definirsi funzionale.

È difficile, dunque, porre fiducia a questo modello di rieducazione; e se si trattasse ancora di punizione, si potrebbe affermare che il carcere sia un’istituzione civile perché per civiltà si intenderebbe un’organizzazione sociale che rinnega e castiga le emozioni.

Chiudendo con un ultimo passo de Le mie prigioni di Silvio Pellico, qualsiasi conclusione si tragga da quest’analisi, che sia di buon auspicio e di “presta libertà” ai buoni propositi.

 

Malattia epidemica nel mondo! L’uomo si reputa migliore, abborrendo gli altri. Pare che tutti gli amici si dicano all’orecchio: «Amiamoci solamente fra noi; gridando che tutti sono ciurmaglia, sembrerà che siamo semidei».

Curioso fatto, che il vivere arrabbiato piaccia tanto! Vi si pone una specie d’eroismo. Se l’oggetto contro cui jeri si fremeva è morto, se ne cerca subito un altro. — Di chi mi lamenterò oggi? chi odierò? sarebbe mai quello il mostro?… Oh gioia! l’ho trovato. Venite, amici, laceriamolo! —

Così va il mondo: e, senza lacerarlo, posso ben dire che va male.

 

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